Dalla finestra di Nicephore Niepce, alla finestra di Windows. Qual è la realtà della fotografia e del cinema? Tanti anni di storia, tante invenzioni e prese di coscienza che hanno rivoluzionato il campo della rappresentazione visuale, le sue tecniche, i suoi contesti fruitivi, ma sempre quella finestra, quella mise en abyme che rende esplicita l’apertura dello sguardo verso un mondo nuovo, riprodotto, trasformato, manipolato. Se è vero infatti che la fotografia abbia un rapporto diretto con il suo referente naturale, è vero anche che questo viene ri-elaborato secondo il “realismo oggettivo” proprio della macchina: sono le sue peculiarità ottiche, meccaniche e tecniche che “processano” la realtà, la quale viene poi ri-trasformata tramite l’occhio demiurgico dell’autore, il quale si serve proprio di quelle tecniche per stabilire un nuovo contatto tra sguardo e mondo. Se ciò è vero per la fotografia, le cose si complicano con il cinema, il quale ha il potere di «organizzare un flusso di eventi audiovisivi nel tempo», usando le parole di Gene Youngblood. Il video poi è capace di incorporare pratiche analogiche ed elettroniche, allargando il discorso sulla scrittura della materia e sulla trasformazione della realtà, ponendosi ancor più di prima in stretto contatto con il computer, “la macchina universale” che tutto ormai ha inglobato.
Per approfondire Gene Youngblood: https://www.fatamorganaweb.it/un-ricordo-di-youngblood/
Prima di tutto però passiamo ad una brevissima storia dell’invenzione fotografica. Uno dei grandi pionieri della fotografia fu proprio Niepce, il quale chiamò la sua scoperta “points de vue”. L’unica veduta a noi rimasta è forse del 1826 e mostra una finestra da cui si intravedono i tetti di alcuni palazzi: l’intento metalinguistico è chiaro, ed esterna già quelli che saranno i futuri dibattiti sullo statuto ontologico della fotografia. Niepce firma poi un accordo con Louis Daguerre, ma nel 1933 muore ed il suo nome viene dimenticato. Daguerre invece ha più fortuna e nel 1838 brevetta il suo “dagherrotipo”. Grazie all’interesse dell’esponente dell’Accademia delle scienze Francois Arago, il dagherrotipo acquista fama internazionale. Molti poi furono i precursori del cinema che cercarono di dare movimento alla fotografia: Etien-Jules Marey, Muybridge, Augustin La Prince eccetera.
Ma la storia, si sa, è scritta dai vincitori: tra i tanti dimenticati precursori dell’arte cinematografia, i quali per impossibilità legali o ristrettezze economiche furono costretti a cestinare i loro brevetti, ci fu Lèon Bouly. I fratelli Lumière non solo si appropriarono della scoperta scientifica, ma anche del nome che a questa il suo inventore aveva sapientemente dato: “cinématographe”. Il termine intreccia i sostantivi greci “Kinema” (da “Kineo”, movimento trascorso), “Eikon” (icona) e “Graphia” (scrittura); già dal nome quindi Bouly evinse le caratteristiche fondanti del cinema: un dispositivo che fosse in grado di creare una scrittura in movimento della luce. Ma il movimento del cinema, equivale a quello della realtà oggettiva? A che tipo di realtà assistiamo quando guardiamo un’opera cinematografica?
Già Luigi Pirandello nel 1916 attraverso il suo Quaderni di Serafino Gubbio operatore ipotizzava quanto la realtà della macchina da presa fosse distante e distaccata da quella propriamente percepita dalla mente dell’uomo, tanto distante e distaccata da rendere tale anche il suo operatore, il quale avvinto dalla fredda oggettività della cinepresa diventava anch’egli automa privo di volontà. Pirandello nella sua critica alla civiltà moderna e meccanica pone una riflessione sul concetto di macchina come “trappola”. Secondo lo studioso Jean-François Lyotard, la macchina è da sempre stata un congegno atto a ribaltare le forze in gioco tra uomo e natura, permettendo il dominio di questa da parte del primo. Ma lo studioso ci ricorda anche come macchina, nel suo etimo originario, contenga anche il significato di “trappola”: essa dunque, dimostrandosi al servizio dell’uomo nella sua specifica funzionalità di ribaltamento delle forze, potrebbe anche, attraverso un’inversione di senso, ritorcersi contro l’uomo stesso, prendendo essa stessa il dominio.
Ma una coscienza istruita sulle tecniche e le modalità d’una macchina, può essere alla base di un uso sapiente della tecnologia che faccia tesoro dei vantaggi conoscitivi e culturali che questa può darci. Walter Benjamin ipotizzava quanto la macchina fotografica fosse un mezzo capace di sondare la realtà come nessun’altra macchina avesse mai fatto prima: attraverso le tecniche che le sono proprie (ralenti ed ingrandimento per esempio) essa è capace di mostrarci «l’inconscio ottico», ovvero ciò che si cela nel visibile, l’infinitamente piccolo impossibilitato ad essere analizzato dall’occhio umano. Il regista Dziga Vertov d’altra parte osannava il potere dell’occhio cinematografico (il kinoglaz) considerandolo capace di sondare maglie dell’esistenza mai considerate prima, attraverso l’analisi, la de-costruzione e la ri-costruzione di una realtà trasformata proprio grazie alle sue qualità tecniche.
Per approfondire uno dei libri più importanti di Walter Benjamin: https://www.filosofico.net/esteticabenjaminnnn.htm
Non è la realtà ciò che vediamo al cinema dunque, bensì una sua ricostruzione, una realtà altra che amplifica proprio quella su cui basa le proprie immagini. Michelangelo Antonioni nel suo Blow-up ci aveva mostrato come la fotografia non potesse avere la pretesa di testimoniare una realtà già per sua natura sfuggente ed enigmatica, ed Italo Calvino in un suo scritto ragionava sull’inverosimiglianza dell’istantanea, fissante una realtà pur sempre in differita tra il momento dello scatto ed il suo inevitabile procedere nel tempo. Non è infatti il chronos – lo svolgersi del tempo nel suo procedere cronologico e sequenziale – che il cinema rappresenta, bensì il kairos, l’attimo “giusto” strappato al fluire dell’esistenza che diviene epifania di una verità che soggiace alla realtà.