La realtà è sfuggente, dobbiamo creare immagini nuove! “Fata Morgana” di Werner Herzog

Questa analisi del film Fata Morgana è l’estratto di una tesi universitaria da me scritta, dal titolo Il rapporto tra Uomo, Natura e Percezione nel cinema documentario di Werner Herzog.

Il film Fata Morgana (1971) nasce durante il fecondo periodo africano del regista Werner Herzog, durato più di un anno: 

Herzog e Schmidt-Reitwen all’inizio girano in Kenya e in Tanzania. Una volta in Uganda, sono arrestati per breve tempo, dapprima perché interessati alla figura di John Okello, il dittatore visionario (che sarà alla base del personaggio di Aguirre) allora caduto in disgrazia. Quindi, nell’estate del ’69, l’avventura del Sahara: dall’Algeria al Niger nel periodo più ostile, quelle delle tempeste di sabbia e, appunto, dei miraggi. Infine altri paesi dell’Africa Centrale: la Costa D’Avorio, il Mali, il Camerun. Qui sono ancora fermati in quanto sospettati di essere mercenari e gettati in una prigione comune dove assistono a violenze di ogni tipo. Le ultime riprese sono completate solo l’anno successivo, alle Canarie.i 

Werner Herzog sul “set” di Fata Morgana

Tale resoconto dei sofferti spostamenti di Herzog nell’ostile territorio africano mette in evidenza quella che è prerogativa essenziale del regista: lo sforzo fisico atto alla ricerca e alla registrazione di immagini non sporcate dalla routine mediatica della società dello spettacolo. Immagini che, in Fata Morgana meglio di qualunque altro film, si mostrano per ciò che non sono, nell’illusione della loro materica apparenza. La fata Morgana è, per definizione, un miraggio, cioè «il riflesso speculare di un oggetto che esiste davvero e che puoi vedere, anche se non lo puoi realmente toccare»ii. Il deserto offre l’opportunità ad Herzog di filmare l’inesistente, il vago apparire di forme indefinite che diventano emblema di un chiaro intento: immergere lo spettatore in un bagno di nuove sensazioni e percezioni. Fin da subito l’approccio è radicale: il film si apre con la visione di un aereo che atterra su una pista di atterraggio. L’immagine di diversi atterraggi viene ripetuta otto volte, ed in ognuna di queste l’aereo è sempre più avvolto in un indefinito e nebuloso orizzonte: «Ero convinto che gli spettatori capaci di stare a guardare fino al sesto o settimo atterraggio sarebbero rimasti fino alla fine del film»iii afferma lo stesso Herzog. Tale scena funge da iniziazione per varcare la realtà e penetrare nelle maglie del mondo onirico, oltrepassando le consuete dinamiche del guardare, restituendoci un mondo fuori dalle normali logiche spazio-temporali, dove il tempo è sospeso ed eterno, e lo spazio indefinito e senza coordinate. Il film, difatti, assume un’aura quasi mistica, ed è diviso in tre capitoli: La Creazione, il Paradiso e L’Età dell’Oro. Nella prima parte, la voce fuori campo di Lotte Eisner legge degli estratti dal libro sacro dei Quiché gualtematechi, il Popol Vuh, scritto nel XVI secolo, e negli altri due capitoli delle voci maschili recitano testi scritti dallo stesso Herzog.  

La scena dell’aereo

Il primo capitolo narra delle origini della Terra. La voce fuori campo narra come dapprima esistessero solo il mare ed il cielo. Tutto era immobile, la quiete ed il silenzio imperavano sugli spazi. Era la calma trionfante e serena del pianeta. La mdp compie sinuose e reiterate carrellate laterali, lente e spaesanti panoramiche, andando ad inquadrare dune, interminabili deserti, vette che si stagliano nell’orizzonte. Essa – come farà anche nel resto del film, sulla musica di Hendel, Bach, Couperin, Mozart, Blind Faith e Leonard Cohen – si muove «come una sdegnosa divinità che esprime uno svogliato interesse»iv, restituendoci un paesaggio sublime e misterioso. D’un tratto, segni di barbara e fatiscente civiltà fanno la loro comparsa: pozzi di petrolio coi loro pennacchi di fiamma, una carcassa di un velivolo posizionata grottescamente in mezzo al deserto. Nel profondo degli abissi marini dimorano gli dei, i quali decidono di rompere l’immoto silenzio creando la vita: la luce, la terra, le piante e le montagne. Carrellate in camera car riprendono interminabili spazi dove montagne si specchiano su laghi che riflettono l’azzurro del cielo. Gli dei decidono di plasmare anche gli animali, primi abitatori della terra. Ma essi si rivelano incapaci di comunicare e addirittura di pronunciare il nome dei loro creatori. La creazione si rivela un fallimento. Vediamo adesso villaggi di paglia, campi di lavoro desolati e grigi dove si ammassano attrezzi, casolari, tubi e bidoni, poveri accampamenti in mezzo al deserto, circondati da scheletri di veicoli e fumi neri all’orizzonte. Carcasse di animali ormai in putrefazione punteggiano il territorio. Poi i creatori decidono di dare vita all’essere perfetto: l’uomo. Ma si rivela essere un fantoccio senza ragione e anche lui incapace di comunicare ai suoi padroni. Allora gli dei intervengono con il diluvio universale: la Terra si ribella all’uomo precludendogli ogni rifugio ed annientandolo. Le carrellate ci mostrano ancora insediamenti in rovina, veicoli rovesciati come residui di un’insensata tecnologia alla deriva. Una camera fissa ci mostra un bambino che guarda in macchina mentre con una mano stringe il collo al suo animale. Il capitolo si conclude con una ripresa del deserto, mentre sullo sfondo imponderabili figure si stagliano in un miraggio. La Creazione è il resoconto di una natura imperfetta la cui origine si rivela essere solo un errore dei suoi creatori. Assistiamo ad un paesaggio deturpato, dove nulla sembra avere senso. Il movimento erratico della mdp ci trasporta verso quello che sembra essere una «elegia dell’entropia, requiem per una civiltà estinta, atto d’accusa dello sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta»v.  

Una scena del film

Nel secondo capitolo, il Paradiso, arrivano i primi incontri ravvicinati con gli esseri umani. Essi diventano “i resti” dimenticati di un mondo senza significato, il quale sembra non lasciare neppure ai loro gesti un residuo di senso. In una scena la voce fuori campo recita: 

In Paradiso si attraversa la sabbia senza vedere la propria ombra. Lì ci sono anche paesaggi senza un senso profondo. In Paradiso le rovine sono sinonimo di felicità. In Paradiso si grida “salve!” senza vedere nessuno. Si litiga con gli sconosciuti per non farsi degli amici. Respiri dolcemente come se fossi già morto. 

Sulla base di Leonard Cohen, assistiamo ancora a lunghe carrellate che ci mostrano scalcinati accampamenti che ardono alla luce del sole. Poi esseri umani i cui movimenti, mentre lavorano la pietra, sembrano grotteschi e privi di logica. Un ricercatore spiega con insistenza folle e alienata come un rettile, il varano, possa vivere così a lungo nell’ambiente ostile del deserto. Donne e bambini si spostano tra case a macerie. Un uomo legge una lettera stropicciata in cui i genitori chiedono preoccupati se tornerà a casa; lui risponde con un secco e banale “sì”. Un altro uomo tiene in equilibro, soffiando, una pallina sulla bocca. Un’ insegnante fa dire in continuazione a dei bambini la frase «la guerra lampo è finita». Herzog incontra queste persone in maniera del tutto casuale, durante il suo faticoso pellegrinare. L’approccio è straniante: la mdp inquadra queste perdute presenze indugiando sui loro corpi, pietrificando i loro movimenti in pose grottesche e naïf. Gli uomini sembrano vagare in un mondo alla deriva, destinati all’incomunicabilità. Alla fine del capitolo ancora deserto, ancora un miraggio. 

Una scena del film

L’Età dell’Oro incomincia col mostrarci un complessino musicale, formato da un batterista con gli occhiali neri ed una matrona al pianoforte. Le loro pose, la loro puerile musica, ci restituiscono uno spettacolo bizzarro e desolante. Altrettanto bizzarri e desolanti sono gli incontri a cui assistiamo dopo: dei “turisti”, sbracciando e dimenandosi, cercano di uscire da dei fossi sul terreno, mentre la voce fuori campo commenta: «Il solo pensiero del progresso genera angoscia e spavento»; un ragazzo, in mezzo ad uno sconfinato paesaggio nero, legge un foglio in cui c’è scritto che il cammino da loro intrapreso è senza meta e senza motivo, mentre un uomo con un ukulele ride in continuazione ed un altro è intento a riprendere con la sua mdp; un subacqueo spiega velocemente come è fatta una tartaruga e poi si immerge con lei nella piscina. «Il paese è in delirio per la pace» dice la voce over, mentre la mdp si dà agli ultimi piano sequenza di paesaggi desertici e sempre più spaventosamente sublimi. Ancora una volta i nebulosi biancori di un miraggio concludono il capitolo, ponendo fine al film. 

Una scena del film

Il racconto mitico, l’occhio della macchina da presa perduto, con i suoi movimenti ieratici e psichedelici, nella solenne contemplazione del paesaggio, la musica che pervade con le sue note il viaggio, le illusioni di un miraggio che rendono il nostro sguardo incerto: le immagini così, perdute tra mito, materia e apparizione, si caricano di ambivalenza e di molteplici sensi; si assiste ad «una trasmutazione fisica del vedere»vi  che porta lo sguardo «a uno stato estatico»vii  e che «si concretizza nel procedere come a una ri-creazione del mondo tramite il cinema, certo, ma anche tramite la stessa potenzialità visionaria contenuta nella natura»viii. Una ri-creazione del mondo che viene ad essere come una «sorta di utopia – o distopia – di bellezza, armonia e orrore»ix. Come un miraggio, il mito della creazione sembra sfuggire agli dei, i quali cadono anch’essi nella «consapevolezza della corruzione originaria dell’uomo come creatura imperfetta, condannata perennemente alla rovina»x. Una ri-creazione del mondo che «come nel giardino delle delizie di Bosch», prefigura «ai margini del dipinto, i germi degli orrori fatali di dio»xi.

  1. Fabrizio Grosoli, Elfi Reiter, Werner Herzog, Il Castoro, Milano, 2000, op. cit., p.37 
  2. Ivi, p.69
  3. Ivi, p.68
  4. Luisa Ceretto, Alberto Morsiani, Al limite estremo. I documentari di Werner Herzog, Edizioni di Cineforum, Torre Boldone, 2006, op. cit., p.9
  5. Sergio Ponzo, Requiem duale per civiltà morenti, in Moras Silvia, Gli enigmi di Werner Herzog, Cinemazero, Pordenone, 2007 op. cit., p.146
  6. Bruno Roberti, Il volo dell’occhio, in Alessia Cervini (a cura di), Werner Herzog, Mimesis Edizioni, Cosenza, 2007 op. cit., p.15
  7. Ibidem
  8. Ivi, p.16
  9. Francesco Cattaneo (a cura di), Werner Herzog: Incontri alla fine del mondo, Minimum fax, Roma, 2014, op. cit., p.68
  10. Sergio Ponzo, Requiem duale per civiltà morenti, in Moras Silvia (a cura di), Gli enigmi di Werner Herzog, op. cit., p.148
  11. Ivi, p.153