La Natura è ostile. Quattro film d’esempio

La Natura è folle?

Ho trattato lo stesso argomento in un podcast che potete trovare qui e qui.

A volte ciò che mi stupisce di più è il giudizio di certe persone e soprattutto la fantasia e l’assurdità che sono capaci di riversare in esso; fantasia e assurdità che delle volte, scontrandosi con dati di fatto o leggi elementari, possono essere utilizzate per due scopi principali. Il primo è trasformare una realtà che si considera troppo banale, noiosa, strutturata secondo leggi e regole imposte dall’alto. Penso ovviamente al caso eclatante dei terrapiattisti, i quali, determinati dal solo obiettivo di scagliarsi contro la comunità scientifica, governata secondo loro da poteri forti più o meno occulti volti a mascherare la realtà, elaborano idee e teorie senza alcuna base logica o razionale. Il secondo scopo è volto invece a nascondere una realtà che ci fa paura, che ci pone di fronte l’orrore dell’ignoto, della violenza, dell’indifferenza, della necessità.

Quest’ultima facoltà di giudizio, secondo me, negli ultimi mesi è stata messa in atto da moltissime persone. Penso al coronavirus, e a quando esso scoppiò in Cina. Furono tantissime le persone che ipotizzarono fossero stati gli Stati Uniti ad inventare il virus per indebolire l’economia e la struttura sociale del loro paese concorrente. Poi il virus si propagò ed arrivò negli Stati Uniti. Come era possibile che il paese tiranno ed inventore dell’arma biologica fosse ora uno dei più colpiti dal male, sia dal punto di vista sanitario che economico? La Cina, da vittima divenne carnefice, e si suppose dunque che a Whuan fosse stato costruito un laboratorio segreto adibito alla creazione del coronavirus.

Complottismi affascinanti, intriganti, inquietanti, di certo, ma…facili, e in qualche modo rassicuranti. Sì, perché individuare il nemico, il capro espiatorio contro cui gettare tutte le colpe di una tragedia ci rassicura, dà un ordine apparente al nostro dolore, permette alla nostra frustrazione e al nostro odio di direzionarsi verso un bersaglio preciso e dunque, in qualche modo, di scaricarsi, di esprimersi verso un chiaro obiettivo.

Ma con il coronavirus, come sappiamo, la situazione è diversa. In molti non hanno voluto prendere in considerazione la ragionevole idea secondo qui il virus sia stato semplicemente un prodotto della natura, e che sia stata dunque la natura stessa il peggior nemico dell’uomo.

Sconvolgere intere società umane sterminandole, per la natura, è un’abitudine. La grande tragedia che sta vivendo il mondo in questi giorni, tristemente, rientra nell’ordine delle cose, e la storia lo conferma. Più volte è stato fatto l’esempio dell’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 provocò circa 50.000.000 di morti. Ma ci sono altri esempi che si potrebbero fare altrettanto tragici. Forse non tutti ricordano o sanno che batteri e virus siano stati per molto tempo un’arma indiretta dei conquistatori europei nei confronti della popolazione delle Americhe, la quale non solo dovette affrontare la violenta natura dell’uomo, ma anche quella invisibile, e molto più temibile, di agenti patogeni venuti a colonizzare più corpi possibili, dal loro interno. Si stima che le popolazioni indigene vennero decimate non tanto dalle armi degli europei, ma dagli esseri microscopici che questi ultimi portavano con sé dal Vecchio Mondo, e che furono causa di mali sconosciuti al Nuovo Mondo, dunque altamente mortali. Come scrive Jane Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie (Einaudi, 1997) infatti, «molti più americani nativi morirono nel loro letto, a causa dei microbi di importazione europea, di quanti non caddero sul campo sotto i colpi dei fucili e delle spade».

Fonte: voceevangelica.ch

La natura non è solo armonia, bellezza e misura. La natura è anche conflitto, sopravvivenza, indifferenza. Ogni essere ha lo scopo di perpetuare la propria specie, e così anche batteri e virus, i quali nei millenni hanno sviluppato i propri metodi di riproduzione e per farlo hanno dovuto dichiarare guerra ad altri esseri, tra cui animali e uomini.

Istinto alla vita e inevitabile disfacimento. Sono tantissimi i film che hanno cercato di rappresentare questi aspetti della natura. Pensiamo ai film catastrofici, tra cui per esempio il classico King Kong (1933). Nel film lo scimmione è la rappresentazione degli istinti più animaleschi dell’uomo, qualcosa da cui la società umana deve sbarazzarsi perché troppo pericoloso, violento, barbaro. Ma ad essere sotto accusa nel film non è tanto King Kong, piuttosto la natura umana, la quale agisce violentemente proprio come il mostro, dissimulando tuttavia questa violenza con la maschera del progresso e della civiltà.

Avrei potuto scegliere numerosi film per trattare l’argomento. Tuttavia ho preferito concentrarmi solo su quattro film, ognuno dei quali si rivolge al mondo della natura in modo originale e profondo, sviluppando un discorso forse più complesso e sottile rispetto a quello di King Kong.

Il primo film che ho deciso di trattare è Alien (1979) di Ridley Scott. Il film è uno dei grandi capolavori della settima arte, nonché uno dei film che trasformò il genere della fantascienza al cinema; eliminando ogni pretesa positivista del racconto, e incupendo i toni e i caratteri del dramma, Scott contamina il genere con l’horror e rende la storia del viaggio spaziale e della scoperta intergalattica qualcosa di inquietante, temibile e misterioso.

Per il suo film Scott sembra rifarsi al meno noto Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava. La trama infatti è molto simile. Nel film di Bava due astronavi ricevono un segnale di soccorso da un pianeta sconosciuto, e decidono di atterrarvi. Qui l’equipaggio scopre una nave spaziale sconosciuta al cui interno risiedono gli scheletri di umanoidi giganteschi. I protagonisti cominciano ad essere posseduti da una forza aliena che prende il controllo della loro coscienza e del loro corpo.

Ok, sembra plagio, ma bisogna dire che Ridley Scott in questo caso plagia benissimo, e riesce comunque a costruire una storia originale. Ma focalizziamoci sull’argomento principale. Ho prima discusso quanto la guerra non avvenga solo tra uomini, ma anche tra uomini ed esseri microscopici che hanno l’obiettivo di invadere i nostri corpi. La terra in cui viviamo è colma di batteri e virus, di vita che incessantemente si riproduce e muore. Ma nello spazio, lontano dalla nostra galassia, le cose come stanno? In Alien Ridley Scott ipotizza non solo che la vita esista, ma anche che questa si possa comportare come un virus, pronto a intrufolarsi nel nostro corpo. Lo xenomorfo di Alien in verità non è un vero e proprio virus, dal momento che si tratta di un essere vivente a tutti gli effetti; tuttavia si comporta come esso dal momento che ha il potere di nascondersi nel nostro organismo, riuscendo ad annientarlo dall’interno. La paura dell’equipaggio dell’astronave Nostromo è la stessa che provarono i nativi americani nei confronti di quel male invisibile che lentamente deteriorava il corpo individuale e sociale del loro popolo; è la stessa che proviamo noi in questi giorni. Ciò che più terrorizza l’uomo è un nemico ignoto, sconosciuto, la cui origine è totalmente nascosta, pronto a divorarlo nella maniera più inaspettata e terribile. Lo xenomorfo è il mostro lovecraftiano che risiede nel buio più ancestrale e temibile: quello profondo e immenso dell’universo e quello altrettanto enigmatico della nostra mente e del nostro corpo.

Alien (1979)

E se a distruggerci non fosse un solo essere, una sola specie, ma un intero pianeta? In Melancholia (2011) di Lars von Treir, Melancholia è proprio un pianeta in rotta di collisione con il nostro. La prima parte del film si concentra sul matrimonio di Justine (Kristen Dunst); Le famiglie degli sposi sembrano felici e spensierate. Tuttavia negli sguardi, nei comportamenti, si annidano delle ombre, dei pensieri che sembrano squarciare l’apparente giovialità della festa. Specialmente Dustine comincia a comportarsi in maniera bizzarra, piangendo, auto isolandosi, avendo un rapporto sessuale con un nuovo collega sconosciuto, e licenziandosi dal suo lavoro. Quella di Justine è pura autodistruzione, pura pulsione alla morte, al deliberato disfacimento di sé stessa, che colmerà nella seconda parte del film, nella depressione più totale. La natura umana, in Melancholia, è ostile a sé stessa: più che riprodursi, essa cerca di annientarsi, di annichilirsi. Ma non solo. Claire, la sorella di Justine, rappresenta colei che cerca di opporre alla disperazione e alla solitudine una logica e uno stato d’animo che la convincano che nell’universo non si è soli. Il marito John poi figura il positivista che credendo ciecamente alla scienza, è convinto che il pianeta Melancholia non colpirà la Terra.

Claire e John cercano di sfuggire dall’irrazionalità, dalla paura del vuoto, costruendo una famiglia e dei principi su cui sorreggerla. Ma l’imprevedibilità della natura si scaglia d’un tratto contro ogni certezza, mettendo fine alla vita d’un intero pianeta. Chi meglio riesce ad accettare la catastrofe è Dustine, proprio perché solo lei è riuscita a comprendere il caos e l’indifferenza che la circonda, accettandola con tranquillità nel momento fatidico della distruzione.

Melancholia (2011)

Ok, per evitare anche noi di cadere nel nichilismo passivo, passiamo adesso al film Padre Padrone (1977) dei fratelli Taviani, dove invece abbiamo un esempio di riscatto dal caos della natura. Il film, tratto dal libro omonimo di Gavino Ledda, è ambientato nella Sardegna degli anni quaranta, e narra la storia di Gavino, un bambino costretto dal padre Efisio ad abbandonare l’istruzione per occuparsi dei pascoli e della terra della famiglia. Gavino fin dalla giovane età è quindi obbligato a rapportarsi ad una natura aspra e minacciosa, vessato dalla violenza del padre, i cui metodi di insegnamento sono particolarmente barbari e ignobili. Gavino non parla. Il più delle volte è silenzioso perché non sa come esprimersi; la sua natura è aspra e informe, proprio come quella che lo circonda e di cui assorbe le leggi caotiche. Come emanciparsi dal caos e dal potere patriarcale? Prima di tutto mettendo ordine al caos stesso. Gavino a vent’anni ascolta dei suonatori di fisarmonica che eseguono un pezzo di opera classica, e ne rimane letteralmente sbalordito. La musica, con le sue elaborate leggi armoniche, mette ordine all’incessante e disordinato suono della natura. Gavino adesso coglie un senso esistenziale più profondo; c’è qualcosa oltre il piccolo mondo di terra dove ha sempre vissuto; c’è qualcosa e vuole scoprirlo. Per decisione del padre, si arruola come volontario nell’esercito, e qui impara la lingua italiana. Un’altra maniera per evadere dall’informe: dare alle idee e ai sentimenti un nome preciso e condiviso, con cui uscire dall’ignoranza e dall’incomprensione.

Gavino pian piano dunque fugge da quella forma di schiavitù a cui era costretto a vivere per colpa del padre, costruendo una propria strutturata individualità. Gavino fugge prima di tutto dall’ostilità della natura umana, quella più cieca e abietta. E al contempo fugge da quella natura fatta di lavoro con gli animali, con i campi, fatta di sopravvivenza e dolore, che è stato costretto a vivere fin da bambino. C’è una scena in particolar modo da cui emerge questa fragilità, questa miseria appartenente all’uomo quanto alla natura stessa. Efisio rincorre il figlio picchiandolo ferocemente con un arbusto che usa a mo’ di verga. Le frustrate sono così forti e ripetitive che Gavino perde i sensi e cade per terra, tramortito. Efisio, accorgendosi del male che ha commesso, prende il figlio sulle braccia e comincia a intonare debolmente un canto sardo. D’un tratto delle voci si aggiungono alla sua, creando una suggestiva polifonia. La camera esegue una panoramica, e il dolore del padre sembra sperdersi nel paesaggio, accordandosi alla follia della natura.  

Padre Padrone (1977)

E per finire, il dubbio, l’ignoto. Per finire ho deciso di parlare di un film che ci aiuta a espandere il concetto di Natura. Perché infine la natura non è benigna, non è ostile; può essere anzi entrambe le cose. Ma è anzitutto mistero; essa è l’espressione della vita che si riproduce e muore, del movimento e della trasformazione a cui siamo destinati, e da essa emergono quegli interrogativi che da sempre ci affascinano: perché proprio questo movimento incessante? C’è un senso in tutto questo?

Nel film Incontri alla fine del mondo (2007) il regista Werner Herzog viene ammesso nella stazione di McMurdo, situata nella zona meridionale dell’isola di Ross, nel Polo Sud.

In una scena il regista intervista David Ainley, studioso di pinguini nella colonia di Capo Royds. Herzog, per fuggire dalla banalità, pone domande particolari, tra cui: «Dottor Ainley, esiste della follia nei pinguini?». Lo studioso risponde titubante che talvolta è possibile imbattersi in qualche pinguino affetto da disorientamento. E qui si apre una scena emblematica: un campo lunghissimo inquadra un gruppo di pinguini che si dirige verso un ciglio di ghiaccio alla ricerca di cibo. Uno di loro però rimane immobile, lontano dagli altri, fino a quando non decide di incamminarsi, inspiegabilmente, verso una catena montuosa lontana 70 km. Herzog nel frattempo ci dice che secondo il dottor Ainley, quel pinguino avrebbe ripreso il suo cammino verso le montagne anche se fosse stato riportato alla colonia d’appartenenza. «Perché?», commenta Herzog, il quale continua mostrandoci un pinguino apparso al campo di immersioni di New Arbor, lontano 80 km dalla sua colonia, che vaga, ostinato, verso l’interno del continente, verso una probabile morte. Herzog con queste immagini, attraverso una stilizzazione data soprattutto dalla musica classica, riesce a rapirci in una contemplazione estatica che travalica l’immagine stessa per farsi Idea. E così noi vediamo un pinguino suicida che decide di venire meno alle leggi elementari dell’autoconservazione e della sopravvivenza, e questa immagine diviene per noi l’allegoria di una natura priva di senso, in cui alberga la follia e l’irrazionalità.

Fotogramma tratto da Burden of Dreams (1982) di Les Blank, documentario che narra il “making-of” del film Fitzcarraldo (1982). A parlare è il regista Werner Herzog