Ho trattato questo argomento anche in un video che potete trovare qui.
In molti hanno parlato del true crime di Netflix Tiger King: Murder, Mayhem and Madness. Tuttavia io cercherò di farlo ponendo una certa attenzione sia alla storia e ai personaggi, che allo stile e al linguaggio della serie, cercando di riflettere quindi sull’estetica di questo documentario e in generale su cosa significhi fare cinema documentario.
Ma prima una piccola introduzione.
L’immaginario cinematografico ci ha ormai da tempo abituato ai paesaggi del Sud degli Stati Uniti e alla cultura di questa parte del paese, spesso vista come retrograda e meno civilizzata rispetto a quella più a Nord degli Stati Uniti. Non è un caso quindi che il Sud sia stato terreno fertile per parecchi horror che si sono concentrati sui lati più oscuri dell’essere umano, quelli più barbari, feroci, disumani e appunto incivili. Penso a Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, ma anche a Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven, Quel motel vicino alla palude (1977), sempre di Hooper, o al più recente La casa del diavolo (2005)di Rob Zombie.
Dall’altra parte l’immaginario che si è creato intorno al Sud è anche quello della libertà, della frontiera ancora da scoprire, del viaggio, dell’assenza di regole ferree e limitanti. Da questo lato abbiamo ovviamente i moltissimo western di John Ford, Sam Peckinpah, John Sturges, e poi un classico come Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, emblema della New Hollywood e di quel sogno americano legato alla scoperta della frontiera e della libertà.
Intorno al Sud dunque nel tempo si è creato un immaginario legato a un certo grado di inciviltà, di selvaggio, ma anche di libertà e trasgressione. Questo immaginario, complici i molti film e i serial televisivi, si è contaminato con le leggi dello spettacolo tanto da diventare, a suo modo, riconoscibile e cool. La serie di Tiger King si inserisce in questo immaginario spettacolare attraverso la figura del protagonista Joe Exotic, il quale rappresenta egli stesso l’incarnazione di questo immaginario spettacolarizzato.
Joe Exotic è, o meglio era, dal momento che ora sta scontando 22 anni di carcere, il proprietario di un grandissimo zoo di rettili, mammiferi e felini, tra cui specialmente tigri, a Wynnewood in Oklahoma. È il classico redneck volgare, pistolero, criminale fiero del suo modo di essere, del suo stile di vita.
Durante la sua carriera di allevatore, di uomo d’affari, decide di creare, attraverso il produttore Rick Kirkham, uno show intorno alla sua figura istrionica e trasgressiva, mostrandosi al pubblico come il re delle tigri. Joe Exotic è un uomo che comprende le leggi dello spettacolo, che riconosce l’importanza e le opportunità dello spettacolo, e che attorno allo spettacolo costruisce un micromondo mediatico non solo dove poter vendere il proprio zoo, ma anche in cui esibire senza freni le proprie idee, i propri comportamenti, il proprio sé. Joe Exotic comincia a farsi riprendere per un lungo periodo da telecamere che quotidianamente filmano il suo lavoro, le sue esperienze e la sua vita privata: l’esibizione attraverso i media diviene sempre più costante; la sua vita, da ciò che vediamo nel documentario, diviene sempre più una continua esibizione.
D’altronde anche Carole Baskin, attivista per i diritti degli animali e acerrima nemica di Joe, comprende e utilizza i linguaggi dei media per veicolare il proprio progetto e spettacolarizzarlo, soprattutto attraverso una esibizione di sé di fronte alle telecamere costante e molto studiata.
Dunque sia Joe che Carole utilizzano la propria immagina per pubblicizzarsi e pubblicizzare le proprie attività, utilizzando un linguaggio particolarmente costruito, spettacolare.
Lo stesso documentario utilizza un linguaggio spettacolare. E qui c’è da riflettere un momento sul concetto di documentario.
Il documentario si differenzia dalla fiction prima di tutto perché le persone riprese non sono attori con un contratto e con una parte scritta. Nel documentario le persone coinvolte si mostrano alla camera secondo una identità che è la loro, e non creata e scritta in una sceneggiatura.
L’approccio del documentarista alla realtà quindi è diverso rispetto a quello di un regista di finzione, perché le persone che va a riprendere hanno i loro desideri, le loro paure, e questi desideri e queste paure sono reali, non finte. Il documentarista nei confronti dei soggetti ripresi ha dei doveri morali ed etici diversi rispetto a quelli del regista di finzione; dei doveri morali più problematici, forse più complessi.
Il critico e teorico Jean-Louis Comolli nel suo libro Vedere e potere: il cinema, il documentario e l’innocenza perduta (2006) afferma che filmare è una questione non di «dare, ma di prendere ed essere presi, si tratta sempre di violenza». Filmare è un atto violento perché mette al mondo un’immagine che prima non esisteva, e che per il solo fatto di esserci apre un conflitto. Un conflitto tra regista e soggetto ripreso, tra soggetto ripreso e camera. Una persona ripresa infatti non potrà mai sapere cosa esattamente la camera conserverà della sua espressione, dei suoi gesti, del suo comportamento. La camera costantemente sottrae, ruba. Quando veniamo ripresi, come scrive Comolli «si ha paura di ciò che verrebbe a rivelarci una verità sul nostro desiderio che noi stessi ignoriamo».
Un documentarista dunque deve riflettere secondo quali modalità riprendere la realtà, e soprattutto quanto plasmare questa con le sue opinioni e le sue idee.
Esistono registi come Frederick Wiseman che scelgono, nei limiti del possibile, di intervenire molto poco e di lasciare che la realtà si dispieghi fluida così come la si è ripresa. I suoi film infatti sono privi di colonna sonora, commenti fuori campo e di particolari effetti scenici dati dalla regia o dal montaggio.
Nel caso di Tiger King invece abbiamo uno stile chiassoso, movimentato, a tratti ironico, altre volte più drammatico; insomma abbiamo uno stile che ha il compito di far divertire, di far riflettere e prima di tutto di intrattenere.
Per far questo il documentario non fa che risaltare con uno stile esuberante gli eventi che ruotano attorno agli altrettanto esuberanti personaggi. Il documentario riveste i personaggi di un’aura spettacolare, non facendo altro che amplificare fino all’assurdo quell’esibizionismo che essi stessi portano avanti.
Guy Debord nel suo libro La società dello spettacolo (1967) scriveva cosi: «Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo […] La realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente».
I personaggi di Tiger King, col pretesto di usare il potere dei media per far sentire a tutti la propria voce, non fanno che plasmare la propria identità in base alle leggi dello spettacolo. Ecco allora che Joe Exotic si candida prima nel 2016 per la presidenza degli Stati Uniti, poi come Governatore dell’Oklahoma nel 2018. Ecco che quando uno dei mariti di Joe Exotic muore, egli comincia a mostrarsi in continuazione piangente di fronte alla macchina da presa, ma tra i suoi colleghi in molti non riescono a capire se faccia finta di farlo per la costruzione del suo personaggio oppure sia serio.
La figura di Joe Exotic potrebbe ricordare quella di Timothy Treadwell nel documentario Grizzly Man (2005) di Werner Herzog. Entrambi decidono di vivere con animali esotici per sconfiggere un passato fatto di violenza e depressione. Tuttavia se in Grizzly Man Treadwell di fronte alla macchina da presa è in grado sul serio di aprirsi e di comunicare le sue emozioni, in Tiger King non riusciamo mai a capire del tutto Joe Exotic; perché egli non si apre mai del tutto, ci sembra incapace di un reale e profondo scandaglio interiore, la sua identità è in simbiosi con il suo personaggio. Sembra che lo spettacolo della natura selvaggia ingabbiata, lo spettacolo dei soldi, lo spettacolo dei media accecano la sua autocoscienza.
La spettacolarizzazione dello stile documentaristico secondo me ha due risultati, uno positivo e un altro più negativo. Werner Herzog affermava che la verità nel documentario non è data dai fatti, bensì da una immaginazione, da un intervento creativo che squarci le apparenze e sveli una realtà più profonda, enigmatica. Per quanto riguarda Tiger King possiamo dire che a rivelarsi sia lo spettacolo, attraverso lo spettacolo stesso. Lo stile esagerato e assurdo di Tiger King non fa che mostrare l’assurdità stessa di queste esistenze apparentemente cool e selvagge, illuminate dai riflettori, ma in realtà problematiche, vuote, terrorizzate.
L’aspetto negativo invece è dovuto al pericolo che lo spettacolo elevi Joe a figura di culto, e che su di esso non si facciano le obiettive analisi. È indubbio che da questo documentario Joe esca anche come figura irresistibile, forte, capace di intrattenere. E non è un caso quindi che i fan di Joe si siano moltiplicati, e che lo stesso Donald Trump, tra l’latro anch’egli venuto alla ribalta grazie alle sue doti da intrattenitore, si sia espresso per una probabile grazia da concedere a Joe per farlo uscire di prigione.
Il documentario non appoggia le idee e i comportamenti di Joe, anzi verso la fine se ne discosta sempre di più. Ma spetta a noi comunque valutare con coscienza l’operato del protagonista, e spetta a noi in qualche modo prendere posizione rispetto allo stile del documentario. Una posizione prima di tutto morale.