Ho trattato questo argomenti in un video che potete trovare qui
Vi è mai capitato di guardare un film e di rimanere inspiegabilmente colpiti da un particolare di poca importanza? Ci sono certe scene nella storia del cinema che i più guardano con indifferenza, ma che per noi assumono un valore straordinario. In questo articolo parlo delle mie ossessioni per i dettagli di tre film a me molto cari; tre dettagli che mi hanno comunicato la bellezza sfuggente e misteriosa del cinema.
Ogni arte si serve delle sue possibilità espressive per rappresentare la realtà, analizzarla, trasformala, esaltarla, rivelarla. Ogni arte possiede i suoi momenti di intensa verità poetica, quei momenti in cui sembra che qualcosa si voglia addensare tra le pieghe di un segno, che qualcosa vibri oltre lo strato superficiale del colore, della forma, della parola; quei momenti in cui un determinato, inafferrabile aspetto della realtà pare si infiammi d’un tratto di un significato totale, eppure misterioso, impenetrabile.
Il cinema è un’arte in cui queste rivelazioni assumono una certa rilevanza. Perché? Esso come ho già detto, registra la realtà, e si serve di essa per svolgere la propria narrazione. Ecco dunque che sarebbe impossibile per il cinema esprimersi senza la realtà. È questa proficua interazione tra cinema e realtà che mi interessa indagare, specialmente quando questa assume una potenza del tutto inaspettata.
Il regista Werner Herzog, nella sua Dichiarazione del Minnesota, affermava che “al cinema ci sono livelli più profondi di verità e c’è una sorta di verità poetica, estatica. È misteriosa e sfuggente e può essere raggiunta solo attraverso l’invenzione e l’immaginazione e la stilizzazione”.
Possiamo dire che il cinema delle volte sia capace di trascendere la realtà, per mostrarcene un aspetto del tutto invisibile, di difficile decifrazione. Mi viene in mente Roland Barthes quando parlando di fotografia distingueva tra Studium e Punctum. Lo studium è tutto ciò che è contenuto nella foto, la realtà sociale e materiale che in essa e rappresentata; poi c’è il punctum, ovvero ciò che in una fotografia mi colpisce davvero, ciò che mi ferisce, che mi ghermisce, scatenando in me la sensazione di aver compreso qualcosa che va oltre la rappresentazione, qualcosa che in essa si annida e che da essa emerge con fare elusivo.
Il punctum è soggettivo. Non esiste una rivelazione che sia oggettiva a sé stessa. La rivelazione è, per sua definizione, la manifestazione del divino all’uomo. Così come la religione cerca di avvicinare l’uomo all’ineffabile e all’inconoscibile, stessa cosa tenta di fare l’arte. Così come le rivelazioni sacre appartengono alle visioni di un uomo che si rapporta al suo Dio, cosi le rivelazioni dello spettatore dipendono dalla sua relazione soggettiva con il film.
Quello che voglio raccontarvi sono le mie personali rivelazioni. Ciò di cui voglio parlarvi sono delle scene che molto probabilmente per voi non avranno alcuna importanza. In ognuna di queste scene ad avermi impressionato è un personaggio che compie un gesto o un movimento apparentemente normale e banale, ma che per me ha assunto un valore straordinario. Ad emerge da questi piccoli atti, come ho già detto, è una sorta di verità potenziata, superiore. Si tratta, usando delle parole dello studioso Christian Metz, di una “verità infinitamente difficile da definire, ma che si localizza istintivamente. Verità di un atteggiamento, di un’inflessione di voce, di un gesto, giustezza di un tono…”. Metz usava queste parole riferendosi all’impulso realista del cinema moderno, ovvero di quel cinema che nacque intorno agli anni ’50 e ’60 e che rivoluzionò certi elementi dello stile e della narrazione cinematografica. In effetti la prima scena che ho deciso di mostrare appartiene al film Baisers volés (Baci rubati; 1968) diretto François Truffaut, regista che fu tra gli iniziatori della Nouvelle Vague, tra i primi movimenti moderni del cinema.
Prima però voglio raccontare da dove viene l’ispirazione per questo argomento. Nel film Mein liebster Feind – Klaus Kinski (Kinski, il mio nemico più caro, 1999) del già citato Herzog, il regista cerca di spiegare la sua ossessione per Klaus Kinski, attore istrionico ed eccentrico famoso per i suoi attacchi di follia durante le riprese dei film. Herzog ricorda di essere rimasto impressionato da una scena apparentemente banale del film Kinder, Mütter und ein General (All’est si muore; 1955) di László Benedek, dove Kinski, ancora sconosciuto, interpreta un giovane militare che dopo essersi addormentato, viene d’un tratto risvegliato. Il particolare gesto del risveglio, colpisce profondamente Herzog.
E adesso veniamo a Baci rubati. Il film costituisce il terzo capitolo della saga dedicata al personaggio di Antoin Doinel, interpretato da Jean Pierre Leaud. Antoin è un giovane ragazzo che dopo essere stato riformato dal servizio militare per instabilità emotiva, ritorna dalla sua vecchia fidanzata, Christine. Tuttavia durante un lavoro da investigatore privato rimane affascinato da una donna sposata; l’incontro più bello tra i due avviene in una scena. Antoine è a casa della donna; c’è silenzio, si parla pochissimo. I seducenti e tranquilli movimenti di lei contrastano con quelli posati e calcolati del ragazzo; dalla tensione emerge il desiderio. L’attore Jean-Pierre Léaud ha difficoltà ad alzare gli occhi per guardarla. Gli alza, con movimenti rapidi e fugaci, poche volte, ed una di queste è quando chiede alla donna una zolletta di zucchero in più, per addolcire la sua bevanda. Ed ecco il gesto. Non è nel desiderio, ma nella silenziosa richiesta del desiderio che si annida, per me, la silenziosa verità del cinema. Ed è anche nel repentino alzarsi delle sopracciglia, nel fuoco nascosto ma vibrante dei suoi occhi, e in quel braccio che si allunga gentile, con tutto lo slancio della curiosità giovanile, a chiedere un’altra zolletta di zucchero ad una moglie a cui si vorrebbe rubare un bacio. Attraverso questo piccolo gesto, Antoine mi dice qualcosa di grande sul suo personaggio, sul suo desiderio, e in una certa misura, su certe sfumature del sentimento umano…
Adesso voglio parlare di un altro film francese, La Belle Personne (2008) di Christophe Honoré. Il film rimanda allo stile della Nouvelle Vague, soprattutto per i temi sentimentali trattati e per l’attenzione risposta ai rapporti e ai conflitti tra il maschile e il femminile. Junie è una sedicenne che si trasferisce nel liceo del cugino. Si fidanza con un ragazzo gentile e timido, Otto. Tuttavia il professore di italiano, Nemours, si invaghisce di lei, e tra i due scoppia una passione intensa ma votata al fallimento, all’impossibile. C’è una scena in cui Nemours, confidando l’amore per la ragazza ad un collega, compie un gesto così naturale ed efficace, così energico e al contempo disperato, che in esso sembra risuonare l’urlo senza voce del suo tormento. Lo potete vedere nella foto qui sotto. Questo gesto tormentato, mi tormenta fin dalla prima volta che l’ho visto, e non so spiegare esattamente il perché. Mi sembra che esso esprima la sofferenza andando oltre la barriera delle parole, o di un atteggiamento. Mi sembra che una interiorità impossibile da definire nel suo costante mutare caotico, erompa dalle superfici della pelle e della mente e si esterni in quel brusco movimento che porta Nemours a stringersi il viso con entrambe le mani.
Adesso voglio parlare dell’ultimo piccolo gesto. Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick è un film che si costruisce, come del resto tutti gli altri lavori del regista, sulla forza dei dettagli. Dettagli espressi non solo dall’accuratezza della messa in scena e della regia, ma anche dall’interpretazione degli attori, le cui battute e i cui movimenti sono estremamente studiati per costruire intorno ai loro personaggi profondità psicologica e spessore. È proprio di uno di questo dettagli che voglio parlarvi. L’ultimo film di Kubrick racconta delle incertezze e della gelosia che pervadono il medico Bill dopo che la moglie Alice, fatta di marijuana, gli rivela che nel passato ha fantasticato sessualmente su un giovane ufficiale di marina, e ha pensato di fuggire dal rapporto coniugale.
Bill, tormentato dai pensieri, comincia a vagare di notte per New York, imbattendosi in persone sconosciute e vivendo esperienze fuori dall’ordinario. Durante uno di questi vagabondaggi, mentre Bill pensa con sguardo afflitto e agitato, si materializzano le immagini dei suoi pensieri di gelosia: la moglie è riversa sul letto, si fa toccare e baciare con desiderio da un militare. D’un tratto le immagini spariscono, Bill continua a camminare, ed ecco il gesto!
Bill sbatte le mani l’una contro l’altra, come a scacciare via i pensieri. La prima volta che ho visto Eyes wide Shut, questa scena è rimasta vivida nella mia memoria, ed ogni volta che ripensavo al film non potevo non ricordare quel semplice sbattere le mani di Tom Cruise. In uno schiocco c’è tutta l’afflizione, la perdizione, il doloroso ribollire interiore di un personaggio. Eppure nel film ci sono altrettante scene, più evidenti di quest’ultima, che riescono a comunicare questo disagio. Perché allora ricordo questo gesto? Perché non riesco a dimenticare le mani di Louis Garrel sul suo viso? Perché sono ossessionato da Jean Pierre Leaud che allunga in quel modo così spontaneo il braccio? C’è in me come uno sgomento quando guardo questi gesti. Per un momento, è come se avessi compreso il cinema, la sua essenza, la sua bellezza… poi l’immagine scompare, come la verità, e torno ad essere ignorante come prima. Il fantasma della rivelazione vive nella mia memoria… poi pian piano si affievolisce… torna ad essere buio…il film finisce…ed io torno alla realtà, senza sapere nulla.