Jean Epstein, nel suo saggio Alcune condizioni della fotogenia del 1923, chiamava fotogenico “ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica”, e continuava a dire che “solo gli aspetti mobili e personali delle cose, degli esseri e delle anime possono essere fotogenici”. Il cinema, attraverso il movimento delle sue immagini, avrebbe restituito nuova dignità al visibile, avrebbe rivelato una realtà depurata dalle scorie delle abitudini percettive, lontana dalla banalità dei giorni lavorativi, e più vicina alle “superiori certezze della poesia”.
E così anche l’artista Béla Balázs, nel suo scritto L’uomo visibile del 1924, osannava il potere conoscitivo, immaginativo e spirituale del cinema, affermando come questo, privo della parola (il primo film sonoro vedrà la luce solo nel 1927), dunque esente dall’asfissiante cultura letteraria, riuscisse visivamente a restituire, attraverso il corpo degli attori, l’anima dell’uomo, rendendo sentimenti e pensieri finalmente visibili alla nostra coscienza. I gesti dell’”uomo visibile” appartengono al suo “io immediato e irrazionale, e quel che si esprime sul suo volto e nei suoi movimenti proviene da una regione della sua anima che mai le parole potrebbero portare alla luce”.
Ma se il cinema si presta così bene a catturare e carpire la realtà dinamica che ci circonda, allora esso è capace di svelarci anche l’anima di un ambiente come la città, simbolo dell’eterogeneità e dell’energia della modernità. Era questo l’obiettivo delle sinfonie urbane, film girati negli anni ’20 che sondavano con l’occhio della macchina da presa l’intensa e caotica vita metropolitana. Tra le opere appartenenti a questo filone, oltre a Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Rutmann e L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vetov, vi si può inserire anche Uomini di domenica (Menschen am Sonntag). Questa pellicola, uscita nel 1930, è ritornata al centro di numerosi interventi critici grazie al restauro dell’EYE Film Instituut Nederland, effettuato nel 2005. Vi collaborarono molti artisti che, in seguito al nazismo, diverranno famosi ad Hollywood: Robert Siodmak e Edgar G. Ulmer si occuparono della regia, Fred Zinnemann fu aiuto operatore e Billy Wilder scrisse la sceneggiatura.
Il film presenta un’interessante commistione tra finzione e documentarismo, dimostrandosi capace di effettuare una profonda riflessione non solo sulla realtà ripresa, ma anche sul mezzo fotografico e cinematografico.
Veniamo subito immersi nella frenesia urbana di Berlino, città dove il vocio ininterrotto della folla si fa febbrile ma indistinto, e dove le tormentate storie che si consumano al chiuso dei suoi appartamenti vibrano di una statica monotonia. È proprio per superare la noia, e per darsi una pausa dai rumori e dai doveri che due donne e due uomini decidono, una tranquilla domenica, di concedersi una giornata di divertimento e relax nella spiaggia di Wannsee. Qui, tra corse, picnic e seduzioni sessuali, i protagonisti vivranno dei momenti di gaia spensieratezza, i quali avranno fine con il loro rientro nella routine quotidiana e lavorativa della città.
Gli attori non sono professionisti, bensì individui presi dalla strada la cui estrazione sociale viene del tutto rispecchiata dai loro personaggi. La loro esistenza si amalgama al tessuto narrativo della pellicola, permettendo ai registi di porre una più forte disamina sulla realtà individuale e sociale di un intero paese. Non è tanto l’improvvisazione ad aprire un varco di sincerità e spontaneità nella struttura della finzione, bensì è la grande cura riservata alla messa in scena e alla regia, che si produce in arditi sperimentalismi, ad allacciare il forte legame tra vita e rappresentazione scenica.
La città, grazie al movimento proprio del cinema, rivela tutto il suo fluire caotico, e gli sguardi dei quattro cittadini/attori, esternano l’anima dell’uomo urbano, perso tra l’epilessia della modernità e il desiderio di un ritrovato contatto con la natura e con sé stessi. Tuttavia i registi ci ricordano che la macchina da presa, aprendo il suo occhio al visibile, ci racconta non solo l’uomo ed il suo rapporto con il mondo, ma anche l’invitabile distanza che si crea tra essa ed una realtà pur sempre sfuggente e soggettiva. Ciò si rende chiaro nella scena delle fotografie documentarie ai bagnanti: non solo i loro volti semplici e spontanei, di fronte all’apparecchio, rivelano sentimenti e storie sepolte nello sguardo, ma pongono di fronte ai loro occhi una maschera, la quale non può non crearsi quando un individuo sa di essere ripreso da un mezzo di riproduzione tecnica. Il film infatti esibisce le fotografie, ma anche il fotografo stesso mentre impartisce indicazioni e consigli, rendendo esplicito il processo di costruzione e messa in scena. Ma costruzione e mascheramento fanno parte della stessa vita reale: i quattro protagonisti ci ricordano quel popolo tedesco che, tra obblighi sociali e ambito divertimento, cerca di distrarsi dalla crisi del ’29 che ancora attanaglia il paese, non prestando ascolto allo spettro del futuro potere nazionalsocialista.