Il cinema è un’arte che registra il fluire dello spazio nel tempo, e come tale è capace di immergersi perfettamente nel dinamismo della metropoli, cogliendone la velocità, l’eterogeneità, il perenne mutamento. È per questo che molti film sono riusciti mirabilmente ad interpretare l’urbanesimo moderno, calando il loro sguardo all’interno delle caotiche stratificazioni della città. L’immagine in movimento aderisce al moto incessante della folla, riuscendo a mostrarci le storie di una collettività sempre più numerosa e dispersa, così come di narrarci le esistenze individuali che la attraversano.
Ma la città è anche il luogo dove il cittadino, avvinto dal tumulto impersonale della moltitudine, sperimenta un nuovo tipo di solitudine, tanto più forte quanto la possibilità di esprimere la propria personalità soccombe sotto il peso schiacciante del trambusto urbano.
Molti i film che hanno messo in scena la solitudine, inserendo questa nel contesto metropolitano: pensiamo a Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, e ancora a Lost in Translation (2003) di Sofia Coppola ed Her (2013) di Spike Jonze.
Anche in Oriente l’industrializzazione capitalistica ha favorito una crescente urbanizzazione, modificando abitudini e stili di vita. Impossibile non pensare ad Hong Kong, città cinese, ma appartenuta fino al 1997 all’Inghilterra, tra le più ricche al mondo. È qui che tra gli anni ’70 ed ’80 scoppiò la cosiddetta New wave hongkonghese, un movimento cinematografico che rivitalizzò l’industria del paese, proponendo film di genere propensi alla sperimentazione e all’analisi della società cinese. Nella seconda metà degli anni ’80 fa invece la sua comparsa un cinema più autoriale e visivamente poetico, che ottenne un ottimo riscontro nei festival internazionali. Tra gli appartenenti a questa Second Wave vi è Wong Kar-wai, il quale nel 1994 dirige Hong Kong Express (internazionalmente noto anche come Chungking Express), un film in cui la città di Hong Kong si fa un labirinto notturno di luci a neon e vicoli affollati, e dove gli individui si aggirano solitari, come malinconiche creature, alla continua ricerca di un amore che non fa che gettarli in una disperazione sempre più isolante.
È la storia di due poliziotti, entrambi abbandonati dalla loro donna, entrambi afflitti da un profondo dolore. Il primo è He Zhiwu, numero di matricola 223, che ogni giorno compra dei barattoli di ananas che scadono il primo maggio, sperando che in quella data la sua fidanzata ritorni. Ma, ossessionato dalla consapevolezza che tutto scade, anche egli si sente come un oggetto, avvinto dalla brutalità delle emozioni umane. Durante la rincorsa di un criminale incontrerà di sfuggita una donna misteriosa dalla parrucca bionda e dagli occhiali neri, coinvolta in un pericoloso traffico di droga. Qualche giorno dopo, senza conoscerla, passerà con lei una notte, nel solenne e triste silenzio della reciproca solitudine.
Il secondo, senza nome, è la matricola 663, un uomo costretto, nell’oscurità della propria casa, a parlare con gli oggetti, facendo finta che essi abbiano delle emozioni. Nel chiosco di un fast food conosce Faye – interpretata dalla cantante Faye Wong – una ragazza che balla in continuazione California Dreamin’ dei The Mamas & the Papas, sognando di partire per la California. I due si innamorano, concedendosi ad un rapporto ambiguo e contraddittorio.
Wong Kar-wai predilige una regia movimentata e vitale, dove inquadrature energiche e schiaccianti ci danno tutta l’impressione della soffocante disfatta dei protagonisti, tutti vittime di azioni masochistiche e speranze effimere che non fanno che approdare alla reiterata esperienza di un presente che, anziché aprirsi alle novità del futuro, si barrica nel tormento del passato.
Wong Kar-wai ci parla di reificazione e spersonalizzazione, e lo fa inquadrando spesso i loghi occidentali della Coca Cola e del McDonald, come a farci intuire che la stessa Hong Kong, perduta tra due differenti culture – nel 1997 passerà dal controllo inglese a quello cinese – è vittima di una confusione identitaria che si allarga al tessuto umano. L’eccesso produttivo del capitalismo, e dunque l’inevitabile spreco dei prodotti tutti contrassegnati da una data di scadenza, hanno influenzato i rapporti umani, rendendoli possessivi quanto inutili.