Il cinema che rivela l’uomo: Carl Theodor Dreyer e Federico Fellini

L’artista e teorico Béla Balázs, nel suo saggio L’uomo visibile (1924), parla del cinema come di un “fatto sociale” che diviene “problema della storia della cultura”, e che si configura come “una manifestazione completamente nuova dell’uomo”. L’invenzione della stampa e il dominio delle parole nei processi di comunicazione, egli scrive, hanno mutato “il volto della vita”, abolendo e piegando la “cultura visiva” al dominio concettuale del linguaggio. Il cinema invece irrompe nella vita di tutti i giorni come una macchina che ha lo scopo di “dare alla cultura un nuovo orientamento verso l’elemento visivo, ed all’uomo un nuovo volto. Essa è “una tecnica di riproduzione e diffusione della produzione spirituale”.

Secondo Balázs, l’arte cinematografica, trovando piena accordanza tra il suo sguardo ed il corpo umano, rivela finalmente in tutta loro potenza espressiva “destini umani, caratteri, sentimenti e stati d’animo d’ogni sorta”. Difatti i gesti dell’uomo, al cinema, “non stanno a significare assolutamente alcun concetto, bensì il suo immediato e irrazionale, e quel che si esprime sul suo volto e nei suoi movimenti proviene da una regione della sua anima che mai le parole potrebbero portare alla luce. Qui lo spirito si fa direttamente corpo, senza parole, visibilmente”.

Bela Balázs

Se il cinema si rende in grado di percepire dai movimenti, dagli sguardi, dalle tensioni emotive che solcano il viso, l’anima dell’uomo, allora si può dire anche che, attraverso essa, colga le problematiche, le contraddizioni e gli oscuri desideri che tutti ci contraddistinguono. Gli occhi di un attore inquadrati dalla macchina da presa ci trasportano nell’affascinante enigmaticità dello sguardo umano, tanto più rivelatorio proprio perché carpito nel suo profondo mistero, e dunque capace di gettarci nelle multiformi stratificazioni della nostra individualità.

Solo i migliori registi, potremmo dire, sono riusciti a fare dello sguardo umano un universo di senso, incanalando in esso quello “spirito visibile” di cui parlava Balázs. E solo i migliori registi sono riusciti a farlo in poche, rivelanti immagini, che da sole hanno avuto l’efficacia di racchiudere la forza drammaturgica dell’intera opera. Tra questi, vi è sicuramente da ricordare Carl Theodor Dreyer, che dopo il suo capolavoro La passione di Giovanna D’Arco (1928), filma un altro film ambientato in un passato colmo di ipocrisie religiose e problemi spirituali: Dies irae (1943). Siamo nel 1623, ed Anne è una giovane donna sposata ad Absalon, un pastore che le ha sempre precluso i piaceri e le gioie della femminilità. Proprio per via delle privazioni e del lungo tedio esistenziale, Anne si innamora di Martin, il figliastro di Absalon, procurando un attacco di cuore al marito. Tra condanne e pentimenti, gioie e sensi di colpa, è la scena finale a gettare una vera luce di pace e conforto all’intero dramma. Anne, pur non essendo una strega, accetta le calunnie lanciatele dallo stesso Martin, adirato per la morte della madre, e in un profondo e muto raccoglimento, ammette le proprie colpe, elevandosi dal gretto materialismo terreno. Il viso le si illumina, i cupi rintocchi di morte che la avvolgono si distendono in una serena letizia interiore. È attraverso il suo sguardo che l’invisibile battaglia tra luce ed oscurità prende forma, decretando la vincita dell’accettazione e del perdono. I suoi occhi sembrano farsi carico di tutte le pene umane, accendendosi di un bagliore divino che instilla purificazione e serenità; il dolore e il male che gli sono stati inferti sono espiati dal suo solenne sacrificio.

Dies irae (1943)

Non possiamo poi dimenticare Federico Fellini, che nella scena finale de La dolce vita (1960), in pochissimi istanti, racchiude tutta la tragica malinconia di Marcello, il protagonista del film, chiuso nella morsa di una vita priva di affetto e sentimenti. Ed è ancora lo sguardo di una donna a palesare il dramma, ad infondergli rinnovata bellezza, commovente speranza. Marcello ha passato l’ennesima notte all’insegna dell’effimero e della depravazione. Ai primi chiarori si ritrova in una spiaggia, dove si accorge della presenza di una donna, da lui occasionalmente conosciuta nel passato, che lo guarda con un sorriso semplice e sincero. Lei lo invita a raggiungerlo, ma una striscia di mare li separa, e le raffiche di vento non permettono a Marcello di sentire le sue parole. Lui, rassegnato, con viso triste ed abbattuto, si abbandona al proprio degrado morale, e lei, in tutta la sua invitante innocenza, guarda dritto alla macchina da presa, rompendo l’illusione filmica. Il suo sguardo si direzione proprio verso di noi, colmandoci di interrogativi, ma invadendoci di una poesia dolce e sfuggente che silenziosamente sentiamo dentro di noi riaccendersi.

Lo sguardo in macchina de La dolce vita (1960)