Il cinema italiano reca con sé una storia fatta di successi, innovazioni, mutamenti e glaciazioni. Tra i decenni positivi che ha affrontato la nostra industria del cinema – oltre al rinomato ventennio ’50-’60 – bisogna ricordare quello degli anni ’10. Il cinema era da poco nato, e il curioso interesse verso un suo utilizzo narrativo ed estetico creava intorno ad esso una cerchia di artisti e uomini d’affare pronti a sperimentarne gli orizzonti visivi. In quegli anni si riuscì addirittura a sviluppare uno star system fatto di “dive”, che facevano la loro apparizione nei cosiddetti film del filone “cinema in frack”, i quali immergevano le loro storie di intrighi e passioni nel mondo esotico e lussureggiante dell’alta borghesia e dell’aristocrazia. Uno dei primi esempi fu Ma l’amor mio non muore! (1913) di Mario Caserini, da cui emerse l’attrice diva Lyda Borelli. Ma il filone cinematografico che di gran lunga riempiva le sale all’estero era quello storico, emblematicamente rappresentato da Quo Vadis (1913) di Enrico Guazzoni. Tale genere di film, emerso dal rinascente interesse di fine ottocento per la cultura romana, riportava in auge, in maniera alquanto patriottica, la grande Storia italiana, magnificandone l’importanza culturale. Non è un caso infatti che tali pellicole furono tra i primi esempi di kolossal, dove l’elemento scenografico storico, enfatizzato in tutta la sua fastosità, aveva un ruolo predominante. Il miglior esempio di film storico fu sicuramente Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone.
Ambientato durante le guerre puniche, racconta di Cabiria, una bimba catanese rubata dai cartaginesi durante l’eruzione dell’Etna per essere offerta in sacrificio al dio Moloch. Il romano Fulvio Axilla, ed in particolar modo lo schiavo Maciste, salveranno Cabiria dalle grinfie del nemico ridonandole la libertà. Ci troviamo di fronte ad un film che esalta, con grande retorica visiva e narrativa, le gesta dei romani, nonché il potere storico dell’antica Roma. E non vi poteva essere per questo collaboratore più giusto di Gabriele D’Annunzio, il quale scrisse con il suo stile pomposamente classico le didascalie. La retorica si riverbera anche nell’apparato tecnico e registico, ma con risultati sorprendenti: la scenografia fu una delle più ardite del tempo, così come i modellini creati per l’eruzione dell’Etna, ed i movimenti di macchina innestarono innovazioni tra cui quella del carrello, qui per la prima volta usato per dare profondità spaziale ed espressiva alla scena. Per finire, il film rese noto il personaggio popolare di Maciste, che ritornerà più tardi nell’epoca del peplum.